70 anni, una storia fatta di grandi intuizioni e di iniziative di successo, di momenti critici e di scelte coraggiose.
Le nostre radici traggono la forza dai nostri valori identitari. I valori della responsabilità e del merito ma anche della solidarietà intergenerazionale e della trasparenza. Poi ci sono la passione e l'altruismo che da sempre animano le donne e gli uomini che scelgono di impegnarsi in Federmanager.
Questa ricorrenza cade nell’anno in cui, pur se la prudenza è d’uopo, qualche effettivo segnale di ripresa emerge dai dati ISTAT degli ultimi trimestri. E’ una ripresa ancora fragile che va aiutata a fortificarsi. Gli ultimi dati sulla disoccupazione segnano un'importante inversione di tendenza a conferma che il Paese si è rimesso in movimento. Anche la categoria dei dirigenti ha pagato a caro prezzo, con una contrazione di circa il 10%. La più alta in termini percentuali. E’ un segnale molto negativo, rischiamo di disperdere un patrimonio di competenze, già rare in questo Paese.
È pur vero che se la cosiddetta classe dirigente avesse saputo leggere e interpretare fino in fondo i grandi cambiamenti susseguiti all’avvento della moneta unica e successivamente alla globalizzazione, si sarebbe intuito che la sfida della competitività si sarebbe inevitabilmente spostata sul terreno della qualità, dell’innovazione e dell’internazionalizzazione.
Non deve sorprendere, quindi, che il clima di opinione verso la politica si sia trasformato in una sfiducia verso le istituzioni e anche quello nei confronti delle organizzazioni sindacali, in particolare verso le grandi confederazioni, sia sceso ai minimi storici in quanto considerate comunque compartecipi delle scelte o delle mancate scelte che hanno portato il Paese sull’orlo di un default.
Il Paese dispone ancora di tante risorse ed energie che non riesce però a mettere a sistema per l’assenza di una visione e di un’azione strategica. Avremmo bisogno di stimolare le energie migliori e di remare tutti nella stessa direzione.
Il sindacato è un’organizzazione di rappresentanza di interessi ma non può esimersi dal collocare le sue strategie nell’ambito di un disegno più ampio che guarda agli interessi generali del Paese. La sua azione di rappresentanza sarà tanto efficace quanto più riesce a capire e interpretare per tempo le dinamiche dell’evoluzione della società e del mondo del lavoro. Altrimenti rischia di diventare irrilevante, di essere incapace di agire ma solo di reagire in chiave difensiva, di non parlare un linguaggio in grado di intercettare le dinamiche del lavoro e dei mercati e di far pensare alle imprese di poter gestire meglio direttamente la relazione con i propri dipendenti.
Questa non è e non può essere la configurazione di un’associazione di rappresentanza del XXI secolo. Occorre invece avere visione, essere aperti e trasparenti. Da dieci anni pubblichiamo il bilancio sociale. Con internet il mondo è profondamente cambiato. Il ritardo del digital divide e sulla banda larga sono il segno tangibile che anche culturalmente siamo indietro rispetto ai cambiamenti che sono avvenuti in questi anni e soprattutto alla velocità con cui essi si realizzano, la variabile più importante con cui oggi le imprese e il management devono confrontarsi.
La sfida tecnologica, dell’innovazione e dell’internazionalizzazione impongono alle imprese un approccio aperto al mondo e la necessità di rivedere e adattare le proprie strategie alle continue evoluzioni del mercato e ai mutamenti dei bisogni dei clienti/consumatori. E’ la strada da perseguire anche per modernizzare la nostra pubblica amministrazione e vincere la resistenza della burocrazia, che trascina con se la piaga della corruzione e della collusione.
Finalmente si sono resi strutturali i percorsi di alternanza scuola lavoro per facilitare l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, ma la disciplina sull’apprendistato, in particolare quello di alta formazione, andrebbe ulteriormente migliorata. Per chi è inserito nell’impresa è la formazione continua la strada maestra. I fondi di formazione continua interprofessionale, come Fondirigenti e il Fondo Dirigenti PMI, per citare le nostre iniziative bilaterali, sono l’esempio di come si possono utilizzare proficuamente le risorse che affluiscono dall'Inps ma che provengono dalle imprese.
Occorrerebbe averlo bene a mente e attestarne in modo chiaro la loro natura privatistica perché la trasparenza gestionale non è solo pubblica e non può essere l’alibi per reiterare l’inaccettabile “scippo” per destinarle ad altre finalità. Per chi invece il posto di lavoro lo ha perso, le risorse disponibili andrebbero ripartite molto diversamente dando un peso maggiore alle politiche attive, perché l’obiettivo non deve essere quello di assistere le persone ma di riorientarle professionalmente verso soluzioni che abbiano una prospettiva occupazionale. E’ il lavoro che garantisce la dignità delle persone ma occorre però avere un mercato del lavoro che funzioni davvero.
Questa è la vision sulla quale Federmanager ha rinnovato profondamente in questi anni la sua politica sindacale. Con coraggio e grande senso di responsabilità ha saputo innovare un modello di relazioni industriali e un impianto contrattuale, ancora unico nel panorama italiano. La nostra specificità contrattuale per essere salvaguardata doveva essere necessariamente attualizzata per tenere conto di quello che avviene fuori dai confini nazionali dove le nostre imprese sono sempre più presenti. Abbiamo rinunciato da tempo agli automatismi retributivi e puntato sulla produttività e messo al centro del contratto collettivo il dirigente come persona.
La valorizzazione del welfare contrattuale e aziendale ha assunto progressivamente nel nostro contratto collettivo un ruolo centrale ed è la chiave di volta per la modernizzazione delle relazioni industriali verso un modello collaborativo e non più conflittuale. Abbiamo realizzato in questi anni importanti iniziative: Fasi e Previndai sono delle eccellenze nel panorama nazionale e siamo stati antesignani sui temi dell'assistenza e della previdenza integrativa. Di Fondirigenti, la Fondazione in memoria di Giuseppe Taliercio, un Collega tragicamente ucciso dalle Brigate rosse, abbiamo già detto ma voglio ricordare i numerosi progetti dedicati alla diffusione della cultura manageriale nelle PMI, riuscendo anche a mettere attorno allo stesso tavolo imprenditori e manager: quelli dedicati a facilitare il reinserimento lavorativo dei dirigenti disoccupati, di cui siamo stati precursori; il progetto IMO per rafforzare i rapporti tra scuola e impresa, un progetto concreto di alternanza scuola lavoro. Lo stesso dicasi per le iniziative bilaterali con Confapi, più piccole ma non per questo meno valide.
Il futuro va verso un modello di contrattazione collettiva di prossimità in quanto maggiormente in grado di rispondere agli effettivi bisogni di aziende e dirigenti di cui è sempre più difficile tracciare una sintesi collettiva su base nazionale. Le aziende sono molto diverse e anche i dirigenti delle varie realtà hanno caratteristiche e attese molto differenti. Il contratto collettivo nazionale di lavoro resta fondamentale ma deve essere leggero e focalizzato sugli istituti essenziali.
Occorre puntare più decisamente sulla produttività perché le retribuzioni non possono essere una variabile indipendente rispetto agli andamenti dell’impresa. Ma c’è ancora troppa resistenza nel condividere le regole per una generalizzata applicazione della quota variabile della retribuzione che andrebbe adeguatamente incentivata per tutti i lavoratori. Siamo ancora distanti da un modello di democrazia economica che contempli forme di partecipazione dei lavoratori nel capitale e nella governance dell’impresa.
La nostra mission è dare alla categoria il giusto ruolo e la corretta immagine che merita nell’ambito del contesto economico e sociale. Attori protagonisti del cambiamento e del successo sia nelle imprese in cui operano in modo socialmente responsabile, sia fuori dalle imprese nel processo di modernizzazione del Paese. Vogliamo e dobbiamo sfatare questa errata immagine di egoismo e privilegio che contorna mediaticamente la figura del manager creata da pochi singoli casi e che si ripercuotono ingiustamente su quelle centinaia di migliaia di colleghi che si impegnano, prendono decisioni e ne rispondono sulla propria pelle.
La concertazione è stato lo strumento che ha consentito la gestione di momenti molto complicati per il Paese. E di questo va dato atto. Tuttavia, due sono le critiche che ci sentiamo di fare: la prima è avere tradotto la concertazione in condivisione, andando oltre un sano confronto, mentre spettava al Governo prendersi la responsabilità della decisione; il secondo è stato lasciare fuori dal dialogo sociale pezzi importanti della società civile. Ma è altrettanto sbagliato ora non accettare il confronto con le associazioni di rappresentanza.
Avremmo evitato la legge Fornero di riforma del sistema previdenziale, assunta in un momento di emergenza ma distante anni luce dal mondo reale che ha messo in forte difficoltà centinaia di migliaia di lavoratori e speriamo che si diano le risposte attese già con la prossima legge di stabilità. Le soluzioni ai problemi del Paese non si trovano con gli sterili dibattiti nei talk show televisivi, che hanno anche il demerito di accentuare la faziosità e il clima di conflittualità, ma attraverso un confronto sano e continuo con chi i problemi reali li tocca con mano nell’agire quotidiano.
Siamo tutti stanchi di approfondimenti e di analisi, i problemi reali sono sotto gli occhi di tutti da anni, abbiamo bisogno di passare all’azione, al fare. Vogliamo esserci, perché queste sono le nostre peculiari caratteristiche e vorremmo contaminare con la nostra cultura, le nostre competenze ed esperienze acquisite e praticate sul campo quotidianamente, i luoghi decisionali del Paese a livello nazionale e territoriale.
Pensiamo al mondo delle piccole imprese. La selezione del mercato in questi anni è stata durissima. Migliaia di aziende non ce l’hanno fatta.
Rischiamo di disperdere un patrimonio del Paese. Si pensi al piccolo imprenditore che si trova nella necessità di affrontare importanti cambiamenti nella sua azienda familiare: passaggi generazionali, operazioni di merger & acquisition, progetti di internazionalizzazione o di reti d’impresa o ancora, più semplicemente, un progetto di innovazione di prodotto o di processo. Ebbene abbiamo un vero paradosso! Ci sono migliaia di professionalità di elevata qualità che non attendono altro che di avere una nuova opportunità di lavoro e migliaia di piccole aziende che sono costrette a chiudere perché non sono competitive non avendo le necessarie competenze.
Le aziende infatti se non crescono muoiono, è la legge del mercato e incrementare la quota di lavoratori ad alta qualifica è necessario per puntare sull’innovazione e sull’internazionalizzazione: questo è il percorso che gli altri Paesi industrializzati hanno da tempo avviato, mentre da noi in questi ultimi anni è successo l’esatto contrario. Il nostro modello di riferimento sono quelle circa 4.000 aziende di media dimensione, cosiddette multinazionali tascabili, dinamiche, strutturalmente attrezzate, che hanno saputo in questi anni reagire innovandosi e a volte trasformandosi profondamente. Sono le aziende che in questi anni difficili hanno puntato sulla qualità, hanno innovato la governance creando un connubio virtuoso tra imprenditore e un buon management, quelle che hanno consentito un forte incremento delle esportazioni e hanno tenuto a galla il Paese.
E’ giunto il momento di rilanciare una vera politica industriale. Fare politica industriale significa innanzitutto riconoscere all’industria il ruolo strategico che ha nel nostro Paese, il motore dell’economia italiana, il principale strumento di sviluppo tecnologico, di creazione e di diffusione di conoscenze e di innovazione. Essa costituisce il principale veicolo delle nostre esportazioni e determina una richiesta di servizi qualificati.
Il mondo economico nel frattempo è diventato più grande e soprattutto connesso. Il passaggio dalla rivoluzione elettronica a quella digitale ha determinato mutamenti epocali nel modo di fare impresa, sui sistemi organizzativi aziendali, ormai catene globali del valore che vanno ben oltre la dimensione territoriale.
Se vogliamo davvero rendere le aziende italiane più competitive, occorre ridurre il cuneo contributivo e fiscale ma è necessaria anche una politica industriale che consenta al nostro tessuto industriale di adattare le proprie caratteristiche e capacità ai cambiamenti tecnologici e del mercato.
Il progetto “Industrial 4.0” va in questa direzione. Non esistono più le catene di montaggio, ma impianti moderni che saranno sempre più caratterizzati dalla tecnologia e dalla richiesta di lavoratori a più elevato livello professionale.
Occorre puntare quindi sullo sviluppo delle infrastrutture digitali e digitalizzare la nostra economia con l’introduzione di dosi massicce di innovazioni nelle nostre imprese manifatturiere, favorendo la creazione di aziende di servizi digitali e lo sviluppo delle digital capabilities.
I fondi pensione possono essere un attore importante nel ruolo di investitori di lungo periodo a sostegno dello sviluppo di iniziative che toccano l’economia reale del nostro Paese, ma gli investimenti in infrastrutture sono importanti, specie per il sud, ma non basta.
Il mercato è importante, ne è dimostrazione la nuova primavera dell’industria farmaceutica che sembra vivere il nostro Paese, ma il libero mercato in natura non esiste. Il nostro tessuto produttivo è vivace e creativo ma ha bisogno di essere sostenuto da una vera politica industriale moderna e coerente con i tempi e che faccia della ricerca e dello sviluppo, nonché della formazione delle competenze, i suoi driver, per favorire l'attrazione di imprese medio grandi, italiane ed estere, che potrebbero offrire opportunità di lavoro qualificato e determinare un effetto virtuoso sull'indotto.
C’è chi sostiene che la migliore politica industriale sia l’assenza di una politica industriale ed è la tesi che è prevalsa negli ultimi decenni. Il vero timore è che attraverso la politica industriale lo Stato torni ad avere un ruolo influente nell’economia. Ma se Obama non fosse intervenuto con tutta probabilità la Chrysler sarebbe fallita e non sarebbe nata FCA.
Il nostro Paese ha bisogno di player per reggere la competizione internazionale soprattutto nei settori strategici del Paese e la presenza dello Stato non deve essere demonizzata. Ricordiamo con molta amarezza le privatizzazioni fatte in questo Paese, salvo qualche rarissima eccezione, allo scopo di fare cassa. Molte sono sparite e hanno fatto la fortuna di scaltri imprenditori, dopo aver riversato sulla collettività una montagna di oneri e messo sulla strada i lavoratori. Molti dei nostri marchi storici sono finiti in mani estere ed è un fenomeno in crescita.
È l'effetto della globalizzazione, per competere occorrono pesanti investimenti e questo è un limite del nostro modello di capitalismo familiare. Ben vengano quindi i capitali dall'estero, ma evitiamo di replicare gli errori del passato. Favoriamo le acquisizioni che tendono a valorizzare i siti produttivi attraverso investimenti importanti e le persone che ci lavorano. Ci piacerebbe vedere un Governo che si spende di più sui tavoli della diplomazia, un'azione spesso fondamentale per acquisire importanti commesse in paesi esteri, e resti fuori dalla gestione dell’impresa.
Che la guida sia affidata a un management competente scelto per il suo curriculum, avendo messo definitivamente in cantina la logica delle appartenenze. Ci piacerebbe poter dire la nostra, visto che ne siamo l’organizzazione di rappresentanza. Pochi uomini al comando possono essere un rischio e a volte purtroppo ne abbiamo visto le conseguenze. Le aziende sono entità vive in cui l’anima è costituita dalle persone che vedono in quell'impresa la costruzione del proprio futuro e nelle quali cresce giorno dopo giorno un elevato senso di appartenenza. Tra queste c'è sicuramente il middle management.
Creare le condizioni per stimolare la nascita di nuove imprese, soprattutto nei giovani che sembrano aver perso questa importante attitudine, è fondamentale per un Paese che ha una insufficiente offerta di lavoro, soprattutto qualificato. Un programma permanente che favorisca l’accesso dei talenti, giovani laureati, nelle piccole imprese, agevolato dalla presenza di tutor, è un'altra proposta che avrebbe il duplice obiettivo di dare un’opportunità più solida a chi ha maggiormente investito nella propria formazione senza che debba andare all'estero per realizzare i propri sogni e di creare le condizioni per accrescere il livello qualitativo delle piccole imprese. Infine, il fisco. Il tema dell’evasione fiscale non più rinviabile e va affrontato senza pregiudizi ideologici o demagogici. Una piaga che non è più accettabile.
Non si possono continuare a premiare i furbi e a tartassare gli onesti. Il livello della pressione fiscale in Italia è troppo elevato, nonostante gli ultimi interventi legislativi e sottrae eccessive risorse al sistema economico. Di questo ne è conscio anche il Presidente del Consiglio che ha annunciato un serie di interventi a partire dalla prossima legge di stabilità. Ma quello che è più grave è che le imposte gravano su pochi: prevalentemente lavoratori dipendenti e pensionati. I dati delle dichiarazioni dei redditi che annualmente vengono pubblicati sono sconcertanti ed è inammissibile che questo venga ancora tollerato. E’ inammissibile che su circa 60 milioni di italiani, i contribuenti siano solo la metà e che oltre 10 milioni di questi versino appena 55 euro all'anno dichiarando un reddito medio di 7.500 euro, mentre il 4,01% dei contribuenti versa il 32,6% del gettito complessivo.
Tra questi lo 0,7%, che siamo noi, dirigenti in servizio e in pensione, versa oltre il 12% del totale. Non può essere la fotografia reale del nostro paese. La nostra battaglia sulle pensioni è una battaglia di giustizia e di verità.
Cominciamo a fare vera trasparenza, non propaganda come il Presidente dell'INPS. Cominciamo a distinguere la previdenza dall’assistenza che grava impropriamente sull’INPS e la cui confusione ha l’evidente scopo di giustificare i tagli alla previdenza e soprattutto alle pensioni di importo più elevato. La crisi occupazionale di questi anni di crisi pone un problema di equilibrio del nostro sistema pensionistico. Siamo pronti a fare la nostra parte, ma occorre garantire vera equità che potrà esserci solo riequilibrando il gettito contributivo e fiscale tra lavoratori dipendenti e pensionati da una parte e tutti gli altri dall’altra e se si darà effettivamente conto di cosa un cittadino da e cosa riceve. Guardiamo i numeri e finiamola con la demagogia, solo in questo modo si potrà incidere sui veri privilegi.
Abbiamo bisogno di semplificare il nostro Paese, di renderlo governabile e con una pubblica amministrazione e una giustizia più efficiente. Ma se vogliamo cambiare davvero occorre puntare sui migliori, rimettendo al centro la persona e l’interesse comune.
Federmanager sta cambiando per essere protagonista del domani e lancia la sfida per i prossimi 70 anni.