Etica, empatia, entusiasmo…… parole frequentemente (ab)usate nei convegni ma che spesso mancano all'appello nella vita reale.
Si parla ormai da almeno venti anni di riforme, riforme e poi ancora riforme. Poi non succede niente. Si dice che i veti incrociati, la difesa dei privilegi ogni volta prevalgono. In parte sarà anche vero, ma è pur vero che manca sempre un disegno strategico, una seria azione di sistema che ci faccia capire dove vogliamo andare e che tipo di società vogliamo realizzare per le future generazioni.
E intanto cambiano velocemente gli scenari geo-politici, purtroppo sempre in peggio, nel mondo spirano venti di guerra, e il nostro Paese resta bloccato nella sua incapacità di affrontare il cambiamento. Il risultato è che ci stiamo impoverendo, siamo passati dall'incubo dello spread a quello del pil che non cresce, cambiano i governi ma la musica e sempre la stessa: si cerca di mettere una pezza qua e là, si strizzano i cittadini onesti, in buona sostanza al di là degli annunci non cambia niente! Che tristezza!
Per anni abbiamo assistito inermi a sterili dibattiti su chi ha fatto questo o quella cosa, guardando sempre nello specchietto retrovisore, e non si parlava mai del cosa fare e del come fare guardando avanti, pensando al futuro. Ho usato il passato, perché quanto meno la speranza è che questo approccio perdente sia venuto meno, almeno nelle intenzioni, ma lo sapremo quando si entrerà nel merito delle singole riforme (art. 18 docet).
Ciò è sufficiente? Sarebbe un buon punto di partenza, ma non basta, soprattutto per un Paese come il nostro che sembra disorientato, sempre più diviso, sfiduciato, da ricostruire sul piano morale.
Stiamo perdendo entusiasmo, la voglia di fare, di inventare, di sacrificarci. Un Paese che sembra non avere più …. fame. Eppure siamo ancora un grande Paese, ma stiamo disperdendo un grande patrimonio.
Non parlo solo del patrimonio storico,artistico, culturale ed enogastronomico unico al mondo, ma anche di quel patrimonio industriale che abbiamo costruito in soli trent'anni quando gli inglesi hanno impiegato ben due secoli. Che fine hanno fatto i Natta, i Mattei, gli Adriano Olivetti, tanto per citarne alcuni. E' possibile che non sappiamo crearne di nuovi?
E’ il segnale evidente di uno scadimento del nostro modello Paese. Un Paese non cambia con la bacchetta magica, specie se è un Paese come il nostro pieno di contraddizioni e di iniquità.
Abbiamo bisogno di leader veri, che abbiano a cuore gli interessi generali, gli interessi di tutti non i propri. Abbiamo bisogno dell'Europa, ma non di questa Europa dove chi è più forte detta legge e risolve i suoi problemi a scapito degli altri.
Ci siamo dimenticati su chi è pesato il costo dell'unificazione delle due Germanie o più di recente la messa in sicurezza delle banche spagnole di cui quelle tedesche erano piene di titoli? Ma come possono succedere queste cose, siamo davvero così ingenui?
Siamo ancora l'ottava economia mondiale (ed è sempre un buon posizionamento), siamo bravi a fare le cose ( non a caso siamo il secondo Paese manifatturiero), ma i fatti dimostrano che siamo pessimi amministratori del bene comune.
Si dice che i politici siano lo specchio del Paese. Di certo non abbiamo eletto i migliori. E’ mancato evidentemente l’impegno della parte buona del Paese che ha quindi anch’essa le sue responsabilità: quanto meno quella del disinteresse, della omissione.
Dobbiamo fare certamente la riforma fiscale e del mercato del lavoro, quella della giustizia e della pubblica amministrazione ed altre, ma abbiamo bisogno di rifondare la classe dirigente del Paese, di selezionare le migliori intelligenze ma anche le più responsabili.
Un nuova squadra, fatta di volti nuovi, liberi, che si faccia interprete di un progetto di rilancio del Paese, che sappia dare un sogno, una prospettiva, recuperando i valori solidi alla base dell’interesse collettivo, per ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni e al Paese intero.
E' da qui che bisogna ripartire. Gli uomini soli al comando non ci piacciono. Questo vale nelle imprese e nella società. C'è la possiamo ancora fare, occorre passare dalle (buone) intenzioni ai fatti!
Su questo la Germania può essere d'esempio: dieci anni fa era messa peggio di noi. Un (vero) governo di unità nazionale ha varato un programma strategico nell’ambito del quale è risultata centrale la riforma del lavoro.
Ma i punti fondamentali sono stati due: la flessibilità del lavoro in azienda, vale a dire una maggiore libertà di modificare orari e mansioni per meglio rispondere alle oscillazioni della domanda; l’aver dato prevalenza alle politiche attive per trovare un nuovo posto di lavoro, facendo decadere il sussidio per coloro che non accettavano una nuova offerta di lavoro o che rifiutavano di seguire un percorso formativo di riorientamento al lavoro, rispetto al mantenimento passivo di un posto che non esiste più.
Se partiamo dall’art. 18, il rischio è che anche questa volta il tentativo possa fallire, su un aspetto importante ma non prioritario.
La nostra priorità è il lavoro. Non c'è lavoro se non c'è impresa. Liberiamoci dal peso della burocrazia, aiutiamo le idee a diventare solide realtà aziendali, facciamoci guidare dal merito per agevolare l'inclusione sociale, agevoliamo concretamente l’incrocio tra domanda e offerta, avviciniamo di più la scuola alle esigenze delle aziende. Facciamo questo, poi forse ci sarà spazio anche per occuparsi dell’art. 18.
Miglioriamo la competitività del nostro sistema produttivo. Il valore delle aziende e' nelle persone che ci lavorano: motivazione e formazione (da considerare un investimento e non un costo), la diffusione della cultura tecnologica e dell’innovazione, un ambiente di lavoro accogliente in cui tutte le persone hanno la possibilità di auto realizzarsi e quelle più meritevoli di crescere e affermarsi.
Mettiamoci nei panni degli altri. Un ambiente sano e una buona organizzazione dei processi sono i principali ingredienti per aumentare la produttività delle nostre imprese, e il problema risiede principalmente nelle piccole imprese che sono la stragrande maggioranza.
Le imprese, anche quelle piccole, hanno bisogno di buoni manager. La società ha bisogno della nostra capacità di fare. Anche noi siamo una componente della classe dirigente del Paese e siamo chiamati a fare la nostra parte, nelle aziende e nella società, per far uscire il Paese dalle secche in cui si trova.
Se siamo compatti e determinati possiamo essere forti. Il middle management è la vera anima dell'azienda, dobbiamo crederci, far sentire la nostra voce, chiedere maggiore rispetto e sentirci maggiormente protagonisti.
Avviamo un processo di contaminazione positivo che parta dai nostri valori identitari: etica ed empatia, solidarietà, ma anche merito (inteso come virtù collettiva) e accountability. Il Paese ha bisogno di riforme, ma più importante è avviare una riforma valoriale e culturale per dare il colpo d'ala al processo di rinnovamento che attendiamo da troppi anni per restituire una speranza, una prospettiva, e soprattutto entusiasmo alle future generazioni. Facciamoci finalmente percepire per quello che realmente siamo!