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Imprese, il pessimismo dei manager solo uno su quattro vede innovazioni

I DIRIGENTI GIUDICANO PERLOPIÙ “AFFIDABILI” I PRODOTTI DELLA PROPRIA AZIENDA, MA MANCA IN GENERE LA SPINTA PROPULSIVA VERSO L’AGGIORNAMENTO. NEL 28 PER CENTO DEI CASI NON C’È NEPPURE UN VERO E PROPRIO BUSINESS PLAN

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<p>L a direzione, per il made in Italy, è chiara: puntare su innovazione e prodotti di qualità. Per sfidare i concorrenti tedeschi o giapponesi. E battere quelli dei Paesi emergenti. La strada da percorrere però, per molte aziende dello Stivale, rimane incerta e accidentata. A rivelarlo, questa volta, non sono statistiche o paper accademici, ma gli stessi quadri dirigenti, coinvolti in uno studio condotto da Porsche Consulting con il supporto di Federmanager. Un sondaggio (anonimo) su un campione di quasi 400 manager al timone di imprese industriali e dei servizi di medie e grandi dimensioni, per lo più attive sui mercati internazionali. Pochi dubbi sul fatto che la competizione si giochi sulla qualità (72% delle risposte), piuttosto che sul prezzo (28%). Ma solo un dirigente su tre indica ricerca e lo sviluppo come leve fondamentali. E solo uno su quattro ritiene che i prodotti della sua azienda siano davvero all’avanguardia. «Affidabili»: questo è il punto di forza più citato. «Innovativi », al contrario, risulta il primo fattore di debolezza, in particolare nella manifattura. «Per restare competitive durante la crisi molte aziende hanno scelto la strada veloce, ridurre i costi, a cominciare da quello del lavoro», spiega Federico Magno, 41enne ammini-stratore di Porsche Consulting in Italia. «Fare innovazione, capendo cosa vuole il cliente e declinando di conseguenza la produzione, è molto più difficile». Compito di medio o lungo periodo, un orizzonte che non tutte le imprese arrivano a considerare. Nel 28% dei casi, testimoniano i manager, la loro azienda non ha neppure un business plan. E dove c’è, tende a essere di corto respiro: la metà ha una durata inferiore ai due anni. Il 43% degli intervistati ritiene che la concorrenza, italiana o straniera, abbia una strategia più solida. Questione anche di cultura aziendale, dice il 34enne Marco Magnaghi, responsabile del Business innovation di Amadori: «Per innovare bisogna portare a tutti i livelli un’attitudine diversa, l’idea che non si possa lavorare sempre allo stesso modo e che si debbano superare le barriere organizzative ». Così tra le imprese italiane si stanno diffondendo figure come la sua, inedite fino a pochi anni fa: «Dice Tim Cook di Apple che, se ha bisogno di un manager per l’innovazione, la tua società ha un problema. Forse è vero in Silicon Valley, io la vedo invece come una nuova sensibilità che si diffonde e una grande opportunità per le nostre aziende». Magnaghi lavora soprattutto su prodotti e marketing. Ma anche le altre fasi dell’attività d’impresa, secondo molti dei dirigenti interpellati da Porsche, andrebbero ridisegnate. Il rapporto con i fornitori, a monte, la distribuzione e l’assistenza ai clienti, a valle. E lo stessa struttura produttiva, che solo il 12% degli intervistati ritiene all’avanguardia. «Snellire e semplificare - dice Magno - il modello a cui ispirarsi è quello tedesco, in cui il vantaggio competitivo si basa sull’efficienza dei processi». Allora, non per forza la ridotta dimensione delle imprese, tipica dell’industria italiana, è di ostacolo: «Nelle piccole aziende l’inerzia nei confronti del cambiamento è più bassa - continua il rapporto tra decisione e esecuzione più diretto». Racconta Enrico Meneghetti, 32 anni, che proprio una reattività di questo tipo ha permesso a Espe, impresa padovana da 70 milioni di fatturato di cui è Business development manager, di cambiare pelle in soli due anni. Da installatore, a produttore di sistemi energetici da fonti rinnovabili, mini turbine eoliche e generatori a biomassa: «Per sfidare i concorrenti tedeschi abbiamo puntato sul massimo della tecnologia e della performance», spiega. Strategia che ha richiesto un cambio di approccio completo, in tutti i settori: «Ha aiutato il fatto che la direzione coincida con la proprietà, che è in sostanza familiare». Come in molte piccole o medie aziende tricolori. Piccolo è innovativo, dunque? Non secondo Giorgio Ambrogioni, presidente di Federmanager: «Più sono mini, più le imprese tendono a vivere alla giornata». Le risorse da investire in ricerca e sviluppo, sostiene, si trovano solo crescendo, o unendosi in rete: «E la strategia va affidata a un manager scelto per competenza, non in virtù di un rapporto fiduciario». Il sospetto con cui molti industriali guardano ai dirigenti esterni, spesso percepiti come intrusi, è nota. Ma in molti casi anche reciproca. Il 30% dei manager sentiti da Porsche ritiene che la proprietà non faccia abbastanza per rendere l’azienda più competitiva, il 36% che potrebbe impegnarsi di più. Uno su quattro che gli affari di famiglia contino più degli obiettivi di impresa. «Ma qualcosa sta cambiando grazie al passaggio generazionale», conclude Magno. «Se al fondatore subentrano i figli e i nipoti, magari con una formazione all’estero, il dialogo con i dirigenti diventa più semplice». Un sondaggio (anonimo) su un campione di quasi 400 dirigenti al timone di imprese industriali e dei servizi di medie e grandi dimensioni, per lo più attive all’estero </p>