Con l’Accordo in parola le parti sociali, oltre a chiarire definitivamente, come si dirà meglio in prosieguo, i confini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, hanno introdotto un meccanismo di regolamentazione dell’uscita dal rapporto di lavoro che realizza, al verificarsi di tale evento traumatico, un equo contemperamento degli interessi aziendali e dei dirigenti.
Più specificamente, l’Accordo 31/01/2014 consente al dirigente licenziato per motivo oggettivo di optare, in luogo dell’indennità supplementare conseguente al licenziamento ingiustificato, ad “una indennità automatica pari al preavviso stesso”.
Per le Aziende, pertanto, sarà possibile conoscere, anche in chiave programmatica, il costo dell’uscita di un proprio dirigente a condizioni, peraltro, inferiori rispetto all’indennità supplementare stabilita dall’art. 19 CCNL dirigenti Confapi; mentre, per i dirigenti, sarà possibile poter fare affidamento su di una indennità “certa” che compensi, nei limiti del possibile, la perdita del posto di lavoro.
Allo stesso tempo, le parti sociali hanno reso servizio anche alla collettività – e più specificamente al “pianeta giustizia” – introducendo un Accordo che avrà non soltanto un effetto deflattivo rispetto al contenzioso giudiziario in essere ma che, con riferimento ai limitati casi sottoposti al vaglio della Magistratura del Lavoro, renderà più agevole il compito del Giudicante.
L’obbligo di motivazione
Come accennato in premessa, l’Accordo 31 gennaio 2014, che attiene precipuamente al licenziamento per motivo oggettivo, richiama la nozione di ingiustificatezza del licenziamento introdotta dalle parti sociali nel 1970 e recepita in giurisprudenza, seppur con qualche incertezza, sino al 1993.
Prima di affrontare il tema della giustificatezza del recesso aziendale, però, ci sia consentito, incidenter, di evidenziare come le parti sociali abbiano voluto, apparentemente senza una ragione precisa, stante la chiarezza del testo di cui all’art. 22 del CCNL dirigenti Confapi, ribadire il caposaldo del “mantenimento dell’obbligo di motivazione del recesso aziendale nella lettera di licenziamento”.
La suddetta “riconferma” è stata dettata dalla crescente esigenza di contrastare quelle interpretazioni del contratto, contrarie alla volontà espressa dalle parti sociali, che hanno consentito e consentono al Giudice del Lavoro di valutare le motivazioni del recesso, anche nel caso in cui le stesse non siano state indicate e riportate nella lettera di licenziamento.
Si auspica, pertanto, che con la riproposizione dell’obbligo di motivazione anche nell’Accordo 31/01/2014 si possa fare chiarezza sul controverso punto, nel senso di concludere per la necessaria contestualità dell’obbligo di motivazione rispetto all’esercizio del potere di recesso.
Recesso aziendale e giustificatezza: criteri di determinazione
Chiarito quanto sopra in merito all’obbligo motivazionale, passiamo ora ad esporre quanto esplicitato nell’Accordo de quo, relativamente ai criteri di valutazione della legittimità del recesso aziendale.
In sintesi, l’impostazione data all’Accordo 31/1/2014 riflette la volontà da sempre espressa non soltanto da Federmanager, ma anche dalle altre parti sociali coinvolte all’epoca; non è un caso, infatti, che sino alla brusca inversione di tendenza determinata dalla citata sentenza n. 5531/93 della Suprema Corte, i Giudici di merito fossero ormai costanti nel ritenere che la nozione di giustificato motivo di cui alla Legge 604/66 fosse applicabile anche ai dirigenti industriali, sul presupposto che detta nozione fosse stata richiamata dalla volontà delle parti stipulanti il contratto collettivo.
Tale principio, avallato dalle due sentenze delle Sezioni Unite n. 7295/86 e n. 1463/87, ebbe a consolidarsi nella giurisprudenza di merito al punto che i Giudici non procedevano neppure a darne conto, enunciandolo in termini aprioristici e pressoché assiomatici, come si può rilevare dalle motivazioni delle sentenze della Suprema Corte n. 5531/93 e n. 6520/95, che proprio per tale motivo hanno cassato due decisioni del Tribunale di Milano.
Nonostante la sentenza n. 5531 fosse stata smentita, con decisione, dalla successiva sentenza n. 6520/95 (che, si ripete, aveva cassato il Tribunale di Milano solo per mancanza di motivazione sul punto dell’applicazione della nozione legale di giustificato motivo), l’orientamento di respingere il richiamo alla categoria dei dirigenti, per via interpretativa, di detta nozione legale, venne a consolidarsi, differenziandosi peraltro, quanto alla individuazione del “nuovo” criterio di valutazione dei motivi, in una varietà di posizioni e sfumature che inequivocabilmente indicavano la difficoltà di identificare gli aspetti applicativi di un concetto di “giustificatezza” (il termine si è ormai radicato nel linguaggio giurisprudenziale e dottrinale, pur non risultando dalla norma collettiva), del quale non è mai stata offerta una definizione che non fosse incerta e sfuggente.
Difficoltà interpretative che si sono vieppiù acuite allorché la Magistratura è stata chiamata a pronunciarsi, sul tema dei licenziamenti dovuti per crisi aziendali in cui, stante l’esistenza di un Accordo collettivo ad hoc che attribuisce una indennità aggiuntiva pari al preavviso contrattuale (Accordo 13/4/95), il dirigente risultava avere una protezione maggiore rispetto ai colleghi licenziati da società floride che, in assenza di crisi, dovevano fare i conti con l’orientamento giurisprudenziale sopraindicato. Sono sorte, in sostanza, interpretazioni delle norme collettive di riferimento, così disallineate tra loro, da aver inevitabilmente pregiudicato la visione sistematica che le parti sociali avevano dato all’impianto collettivo da loro costruito negli anni.
Tornando all’Accordo in esame, vi è da dire che Confapi e Federmanager non si sono accontentate, di dissipare i dubbi ermeneutici ricorrendo ai soli principi generali della “giustificatezza” ma hanno voluto persino tipizzare le fattispecie di recesso “giustificato” che, nel caso di specie, sono:
(i) La soppressione delle funzioni svolte dal dirigente;
(ii) In parziale deroga di quanto esposto sub i), l’accorpamento di due o più posizioni dirigenziali identiche;
(iii) La decisione di abbandonare, salvo il caso di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., l’area di business a cui è preposto il dirigente.
Con il punto (i), pertanto, si è tornati a dare ampia rilevanza alla effettiva soppressione delle funzioni assegnate al dirigente e non della “posizione” da quest’ultimo ricoperta. Si è data predominanza, cioè, all’attività svolta in concreto e non alla mera job description.
Al contempo, si è ritenuto corretto derogare a tale principio nelle ipotesi, ad avviso delle parti firmatarie meritevoli di specifica attenzione, descritte sub (ii) e (iii).
Una risposta definitiva alle incertezze interpretative
Come già ricordato in precedenza, le incertezze in tema di licenziamento del dirigente hanno comportato delle difficoltà anche per le Aziende, soprattutto in tema di programmazione delle condizioni di uscita.
In tal senso, la risposta data dall’Accordo collettivo Federmanager-Confapi del 31/01/14, nel prevedere la possibilità per il dirigente licenziato di optare per una indennità supplementare pari al preavviso stesso è davvero felice: da un lato, l’Azienda potrà corrispondere una indennità inferiore a quella stabilita dall’art. 19 CCNL dirigenti Confapi e conoscere – e quindi programmare – il “prezzo del recesso”, dall’altro lato il dirigente, rinunciando all’impugnativa di licenziamento, potrà optare per una indennità “automatica” senza dover affrontare l’alea di un giudizio vertente sulla giustificatezza o meno del provvedimento espulsivo.
In conclusione, l’Accordo del 31/01/2014 realizzerà un “equo contemperamento” degli interessi in gioco, sia di quelli aziendali che dei dirigenti, fornendo, al contempo, quei chiarimenti che certamente contribuiranno a ridurre, ed anche a meglio gestire, il contenzioso giudiziario.
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