Tra pochi giorni, esattamente il 9 ottobre celebreremo i 70 anni di Federmanager, un’organizzazione fatta da manager per i manager con una lunga storia al servizio della categoria dei dirigenti industriali. Saranno ricordate le grandi conquiste e i momenti delle decisioni più difficili, sempre a testa alta, con senso responsabilità e nell’interesse della categoria e con l’orgoglio e la dignità che ci caratterizza.
Sarà una festa di tutti i manager, l’occasione per rimarcare l’importanza dello stare insieme, ancor di più ora che in passato e per ringraziare le persone che si sono impegnate e che continuano a dedicare il loro tempo a sostegno alla categoria. Sarà anche l’occasione per parlare del nostro futuro, dei nostri progetti per dare il senso dell’azione di rilancio della nostra attività di rappresentanza verso le istituzioni, le parti sociali e, più in generale, per favorire lo sviluppo e la modernizzazione del Paese.
A questo proposito parleremo di produttività, un tema prioritario per il nostro Paese: la strada è obbligata per la crescita. L’Italia deve inseguire la Germania, non certo la Cina o gli altri Paesi emergenti. Bisogna alzare l’asticella della competizione sulla qualità non sui costi.
Se vogliamo agganciare la ripresa economica durevole occorre agire sull’offerta attraverso l’aumento della produttività, più che sulla domanda, perché è quella che garantisce una durata maggiore e l’effetto degli 80 euro rischia di smorzarsi. E’ attraverso l’incremento della produttività che le aziende possono recuperare quei margini che consentono di fare gli investimenti necessari per l’innovazione e lo sviluppo delle stesse. Abbiamo un pesante gap da recuperare che si è accumulato in questi ultimi 20 anni.
Ma va detto che il nostro deficit competitivo è fortemente influenzato dalla presenza prevalente nel nostro tessuto produttivo di micro e piccole imprese che hanno una struttura organizzativa modesta. I dati statistici, se scomposti e analizzati, dimostrano che anche in Italia le aziende più strutturate, in cui sono presenti competenze manageriali, sono addirittura più produttive, e non marginalmente, dei nostri competitor tedeschi. La ricetta quindi non può che essere quella: favorire e agevolare una dinamica di crescita del nostro infinito mondo di PMI con l’inserimento di manager, di quelle figure professionali di elevata qualificazione, meglio se esterne alla famiglia.
Il nostro è un paese in cui si predilige ancora agevolare l’investimento su un nuovo macchinario, mentre sono le persone la vera forza delle aziende. E’ l’intelligenza applicata che vince, consente di utilizzare al meglio gli strumenti a disposizione, di rivedere l’organizzazione, migliorare il processo produttivo, appore nuove soluzioni, trasmettere le conoscenze e la cultura d’impresa ai propri collaboratori. Un’adeguata politica incentivante aiuterebbe a vincere la resistenza culturale del piccolo imprenditore ad aprirsi al mondo delle competenze esterne alla famiglia per meglio affrontare la sfida dell’innovazione.
Dobbiamo guardare con maggiore interesse a quelle circa 4.000 aziende di media dimensione, cosiddette multinazionali tascabili, dinamiche, strutturalmente attrezzate, che hanno saputo in questi anni reagire innovandosi e a volte trasformandosi profondamente, che possono rappresentare il modello di riferimento per le altre aziende più piccole. Sono le aziende che in questi anni difficili hanno puntato sulla qualità, grazie al connubio imprenditore e un buon management, quelle che hanno consentito un forte incremento delle esportazioni e di tenere a galla il Paese.
Le aziende se non crescono muoiono, è la legge del mercato e incrementare la quota di lavoratori ad alta qualifica è necessario per puntare sull’innovazione e sull’internazionalizzazione: questo è il percorso che gli altri Paesi industrializzati hanno da tempo avviato, mentre da noi in questi ultimi anni è successo l’esatto contrario: infatti, nel nostro Paese solo il 33% degli occupati ha un ruolo ad alto profilo professionale, invece per i nostri competitor la percentuale sale al 45%. Ma quello che più preoccupa, come risulta dallo studio dell’IFO (Institute for Economic Research), è che mentre in Italia queste figure professionali sono diminuite del 15% negli altri paesi sono aumentate del 10%. E’ un segnale allarmante perché il modello organizzativo delle nostre imprese tendenzialmente si sta attestando su livelli organizzativi di più bassa qualità.
Questi purtroppo sono i fatti. Negli ultimi 5 anni, ben oltre 21.000 nostri colleghi hanno perso il rapporto di lavoro, dei quali oltre 4.000 solo nel 2014. Le imprese chiedono meno tasse e meno burocrazia per essere più competitive. E questo è sacrosanto, ma guardiamo anche dentro le imprese perché i margini di produttività che si possono recuperare sono altrettanto ampi e avremo comunque imprese più solide e durature.